E’ stato un attimo. Un attimo infame. Di quelli che ti rubano un respiro, un pensiero, un sorriso, un sogno, un’esistenza intera. E’ stato un attimo a portare via un amico, una moglie, un fratello, un figlio…
Nella quotidianità ingrata di chi sudava in quell’impianto logoro di trasporto, un attimo ha deciso che non fosse abbastanza umiliante, viaggiare su un unico binario e attendere la tua coincidenza sfortunata. Perchè, nel 2016, morire di quotidianità, di pendolarità, o di viaggio può essere definito solo umiliante.
Azzurro. ll pomeriggio è troppo azzurro e lungo per me. Non lo è stato, invece, per chi non aspettava altro che riabbracciare qualcuno. Non lo è stato per chi stava entrando nel vivo di un libro che non finirà mai di leggere e di cui non conoscerà mai il finale. Non lo è stato per chi, incrociando lo sguardo della sua dirimpettaia, stava già immaginando d’offrirle un caffè e di assaporare quelle labbra voluttuose. Non lo è stato per chi stava controllando la notifica di Whatsapp, in cui la fidanzata gli scriveva “Ti amo. Mi manchi” e sorrideva, ignaro. Non lo è stato per chi era al telefono, raccontando della giornata faticosa, del caldo asfissiante, del viaggio interminabile. Non lo è stato per chi, sfogliando il giornale, sperava di leggere, finalmente, di fondi destinati ai trasporti regionali al Sud e invece niente. Niente potrà riportare indietro le speranze mal riposte di chi sognava un futuro migliore. Niente, nemmeno il cordoglio di circostanza, la strumentalizzazione becera, la retorica sterile. Niente di niente.
E allora via al valzer pure sull’ennesima sciagura, alla ricerca dei “veri” colpevoli, alla lavanda della coscienza con tanto di circoscrizione della faccenda al solo errore umano. La macchia va via, ma l’alone resta. Il vuoto resta.
Il treno dei desideri, al meridione, all’incontrario va. O magari è costretto a viaggiare su un binario unico e a sperare di non essere appeso a una distrazione. Per alcuni, il treno dei desideri semplicemente non c’è più.
Il Capo-Danno Nolano
La mia città è un countdown infinito, proiettato sul palazzo di città. E’ come se il conto alla rovescia, una volta arrivato a uno, ripartisse di nuovo dal 5, in un ciclo masochistico perenne. La Festa dei Gigli solo a Nola, Nola solo alla Festa dei Gigli. L’affermazione palindroma dell’essenza della mia città è simpatica e inquietante allo stesso tempo. E’ tutto qui, non si scappa. Nola vive di Festa dei Gigli e muore di Festa dei Gigli. “A Festa tann’ nasce, quann’ more”, negli ultimi anni sembra essere diventata più una maledizione che la sintesi perfetta del fascino millenario della kermesse bruniana. Nola è una città ripiegata su sè stessa, sull’esasperazione delle sue virtù, che diventano vizi.
Da bambini solo quei giganti maestosi, un palloncino, i coriandoli sapevano suscitarci meraviglia. Da grandi basta poco per essere felici: due note di sassofono, due colpi di grancassa e un battito di cuore. I nolani si accontentano. Sono capaci di lasciare che la loro passione esploda, nonostante venga rinchiusa in un piccolo spazio: che sia uno “stadio” di 1200 posti o un palco di 6 metri quadri, poco cambia. Gli eredi di Giordano Bruno non si ribellano, si prendono quello che passa il convento e vanno avanti con l’inno di San Paolino. Poi se il convento è composto da monaci disonesti, incoerenti, votati a una fede diversa da quella dei cittadini, poco importa. Il convento se lo addobbano in grande stile, con luci avvenieristiche, con la ‘maschera’ del Santo di riferimento e con fuochi d’artificio (che in Piazza D’Armi sono vietati, ma in Piazza Duomo no) reali e virtuali. Mentre, invece, il palco rimane tale e quale, anzi, si affolla, ma tanto è Festa e allora chissenefrega dell’equilibrio precario e dei detriti dei fuochi d’artificio sul capo.
La nolanità è un pendolo che oscilla tra l’inno di San Paolino e l’inno di una paranza (“oh mamma mia, è la nomediparanzaacasomanontroppo”).
La nolanità è un attimo, perchè il 25 giugno 2012 è soltanto una data ed è pure lontana, ormai è il passato. Ma chi la vuole questa rinascita?
La Festa è del popolo, il popolo è sovrano, almeno così si dice. Mentre i nolani si lanciano in capriole di felicità per quel giugno ritardatario cronico, la città resta aggrappata a quel conto alla rovescia che riparte inesorabile. E dire che fino alla mezzanotte è sempre tutto perfetto: i giovani, la tradizione, l’attesa spasmodica. Poi si accendono le luci numerate e ci dimentichiamo tutto. Vai con lo squalo che ci mangia il cervello e ci lascia sanguinanti di esibizionismo. Ma l’esibizionismo è solo il primo dei problemi. La voglia di “mettere acopp”, sempre e comunque, è imperante nelle nostre vite, mica solo nella Festa. Ci aggrappiamo al nostro varriello di salvezza e lo sbattiamo quanto più possibile, lo spezziamo e la paranza “affonda”. E’ quanto di più egoista si possa fare badare ai propri interessi ed indignarsi solo quando questi vengono calpestati. Ci lamentiamo del nostro varriello solo quando ci abbandona e la colpa non è mai di chi si sbatte, ma sempre del legno marcio. Perchè il legno è marcio, certo. Ma anche chi lo sbatte, non scherza mica. Il marciume imperante di chi si dichiara contro le ingiustizie e poi se ne rende protagonista, macchiandosi di incoerenza. Il nolano medio è un filtro di Instagram, un ritocco al photoshop, perchè la faccia è quella che è, ma i selfie, cazzarola, devono venire bene, sennò manco li pubblico. E intanto manco ce ne accorgiamo, ma soffochiamo, su quel palco, in quello stadio, nella nostra città. Ma tanto è giugno e quando finisce, arriva un altro giugno. E in mezzo a quel countdown di mesi inutili ci sono solo numeri che si ripetono. All’infinito.
Sei personaggetti in cerca d’autore (ma senza sorrisetti)
“Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è.” L’estrema sintesi, l’ineluttabile verità di chi definisce l’uomo secondo le sue azioni. Ed è per questo che un personaggio “è sempre qualcuno”, mentre un uomo “può non essere nessuno”.
Lo sceriffo. Quello della contea che ha cambiato volto. Quello che della politica non ha, però, cambiato i volti. Un’artista del riciclo creativo, capace di riutilizzare un volpone democristiano e un manipolo di portatori sani di voti sporchi, per creare il delitto perfetto. Probabilmente non lo vedremo protagonista, bloccato nel traffico delle regole.
Il presidente uscente. Quello che ha stravinto nei confronti tv e ha straperso alle urne. Quello della lotta all’impresentabilità, in un partito che ne ha fatto il suo credo principale, con o senza conferme della magistratura.
Il polpettino. Perchè di polpetta ce n’è una e come “lui” non c’è nessuna. I suoi elettori hanno avuto il ‘tic tac’ di votarlo e non hanno deluso le aspettative, rendendolo il primo esponente della fazione. Poi chi siano questi elettori poco importa, l’importante è avere raccolto un’altra poltrona a tavola, dove poter sfoderare la pietanza tanto cara a papà.
La capitonessa. Che sia merito di Mimmo o della sua smodata compassione per i serpenti acquatici, la cartella esattoriale di queste elezioni ha riscosso le tasse degli scontenti. A certe tradizioni del cenone di Natale ci teniamo sempre meno e il fatto che i “cittadini a 5 stelle” siano diventati primo partito in Campania la dice lunga.
Il silenzio. Ovvero la sinistra campana, nelle accezioni positive e negative. Nel silenzio totale della stampa, infatti, ci sono stati buoni risultati per chi ha sostenuto le lotte di utilità comune (ambiente, beni pubblici, ecc.). Allo stesso modo, nel silenzio, è rimasta la partecipazione elettorale. A testimonianza di una inconsistenza cronica di risultati di chi fa dell’onestà e del programma il valore principale.
Il camaleonte. In principio, fu il caimano, quello che abbiamo imparato a conoscere tutti. Poi è arrivato lui, ha ridonato le macchie ai leopardi, ha annientato gli avversari e si è preso l’habitat a suon di mutazioni cromatiche della pelle. In periodo di muta, però, si sa, pezzi di pelle vanno anche via e rischiano di mostrare le crepe di una incoerenza costante, colpevole e mascherata di “nuovo”, che nuovo non è.
Teatro nel teatro, narrazione nella narrazione. Non mancano di certo i personaggetti, con tanto di sorrisetti. I loro, non di certo i nostri.
Abelardo, il pugile materasso
“Non fa male, non fa male!”. E, invece, sì che fa male. Il pugile bugiardo Abelardo non si rese mai conto di quanto facesse male, finchè la vita non gli mise davanti un avversario onesto. Uno di quelli che danno tutto sul ring. Non per massacrarti, no di certo. Semplicemente perchè è l’unico modo che conoscono, da sempre, di combattere. Lo fanno per l’etica, lo fanno per rispetto di uno sport in cui, chi si risparmia, o è un venduto o è un materasso. Cos’ è un pugile-materasso? Ma sì, dai, son quelle amebe che sanno di non poter eccellere sul quadrato. E allora decidono di farsi ingaggiare semplicemente per incassare, in tutti i sensi. Incassano fin quando non vanno al tappeto, fingono tristezza, riempiono il portafogli e poi lo svuotano nelle mutandine di qualche bella signorina o in qualche bicchiere di scotch. Tornando a noi, quel giorno il “pickwick” (o materasso, se proprio vi piace di più) se la vide davvero brutta. L’avversario non s’accontentò di tirargli qualche pugno ben assestato. Dopo aver intuito chi si trovasse di fronte, decise di dare una lezione al pickwick, imprimendogli i guantoni nella coscienza, ancor prima che sul volto e sullo stomaco. KO tecnico. Corsa in ospedale, trauma cranico, poi il coma. Difficile stabilire quanti furono i giorni che il pugile disonesto passò nel limbo. Quello di cui ci si accorse, invece, era chiaro e lampante a tutti. Abelardo non aveva più intenzione di essere un materasso. Non aveva più intenzione di avere un ruolo più infimo di un sacco da boxe. Non passarono nemmeno 24 ore dall’uscita dal coma che si mise in piedi, corda nelle mani, e iniziò a saltellare. Saltellò così forte che vide il lampadario tremare. Non delle vibrazioni del suo peso, ma della consapevolezza delle sue motivazioni. Si rese conto che quella corda era il simbolo della sua rinascita, cominciò a portarla con sè ovunque. Il giorno dopo, fece 3 giri dell’isolato, correndo a più non posso, con la corda appoggiata sulle spalle, quasi a ricordare che lui era un pugile. Più passavano i giorni, più crescevano le sue motivazioni. Si incrociò per un attimo allo specchio, si vide diverso. Tornò in palestra, riprese ad allenarsi, come forse mai aveva fatto. Bastò un mese, un solo mese di duro lavoro e raggiunse il picco della forma. Ottenne il rematch con il pugile onesto che l’aveva massacrato. Si ritrovò faccia a faccia con chi l’aveva destato dal torpore che lo stava uccidendo, pur tenendolo in vita. Lo affrontò senza paura, senza timori, in un match in cui non lesinò nulla. Al netto di tutti e 12 i round, Abelardo fu battuto ai punti. Eppure sorrideva, con quel suo sorriso esteticamente non ineccepibile, ma emblematicamente unico. Aveva imparato la lezione, a suon di pugni. Aveva imparato che l’unica sconfitta onorevole, degna di essere festeggiata, è quella dell’uomo onesto che ha fatto di tutto per evitarla.
Te la ricordi quella volta che il Sassuolo perse la finale di Champions?
Correva l’anno, ma non fu mai raggiunto. O forse così decise l’arbitro. Sì, perchè i minuti di una partita di calcio sono sempre 90, è vero. Ma a decidere il recupero sono gli eventi che fermano il tempo. O almeno ci provano. E allora accade che il recupero si allunga a dismisura, quasi fino a non venire mai segnalato.
Ma torniamo al Sassuolo. Una squadra di provincia, una di quelle che a qualcuno piace chiamare “favole”, semplicemente perchè hanno il coraggio di spingersi fin dove nessuno si sarebbe mai aspettato.
Chiudiamo gli occhi. Immaginiamo che, a giugno, per fortunati avvenimenti, coraggiose ostinazioni e inconsapevoli coincidenze astrali, il Sassuolo si ritrovi catapultato in Champions. Basterebbe il caso. Basterebbe a trasformare la “favola” in “Cenerentola” dei gironi.
I bookmakers allora comincerebbero a sparare quote improbabili e improponibili, tanto chi ci andrà mai a puntare sui neroverdi? Ma, vuoi per statistica, vuoi per pazzia, c’è sempre il sognatore che cavalca l’onda dell’impossibile. Si affaccia con fare disinvolto alla cabina del centro scommesse sotto casa e punta. Punta senza paura. Punta senza pensare.
Torna a casa col sorriso sulle labbra, perchè quella speranza, quella minima statistica lo rende libero. Segue i gironi, impreca come un autista sulla Salerno-Reggio a Ferragosto, soffre, si infiamma e, alla fine, gioisce.
Il Sassuolo è agli ottavi. La Modena nero-verde si accende di passione, sospinge la squadra. Accade l’impensabile: partita dopo partita, battaglia dopo battaglia, il Sassuolo è arrivato in finale.
L’avversario è la storia della Champions: il Real Madrid. Quello dei giocatori strapagati e straviziati con le chiappe sode come il marmo. Non si può sbagliare, non capita mica tutti i giorni di arrivare in finale. Ma la magia svanisce, la carica positiva s’è esaurita e tutto quello che può andare storto va inesorabilmente a donnine di facili costumi.
L’allenatore sbaglia la tattica, testardo com’è dei successi finora raggiunti. L’attaccante s’incaponisce nelle azioni personali, dimenticandosi dei compagni di squadra liberi e smarcati. Il centrocampista perde la disciplina tattica e comincia a correre ovunque aggrappandosi a qualsiasi maglia avversaria. Il difensore, invece di pressare, indietreggia, si lascia intimorire e si lascia superare in velocità come un birillo. Il portiere, unico baluardo a difesa della dignità, sbaglia tutti i tempi delle uscite, facendo figure barbine.
Risultato finale: 22-0. Tutti a casa. La finale è persa, chissà se ce ne saranno altre. I tifosi, sconsolati, non riescono a staccare le labbra per proferire parola. Anzi, appena girano un angolo, purchè sia buio e nascosto, piangono sfogando la delusione.
E lo scommettitore? Beh, si rammarica. Non per i soldi (che non ha mai posseduto) andati persi. Bensì per la speranza, accresciuta a dismisura dal sogno e sgonfiata come un Super Santos dalla pungente realtà.
In fondo, però, si vive per sognare. Basta un Super Santos, ed è subito Champions.
L’equilibrio: la minaccia alla coerenza
Un comportamento inaspettato. L’instabile umore di un grigio lunedì. L’avversione alle risposte semplici e alle frasi fatte. La ricerca spasmodica di un “come dovrebbe essere”. La colpevolezza del diniego al “come è”, soffocato dall’istinto paradossale di un paletto mentale. Resti fermo, fermo mentalmente all’attimo in cui ti sei esposto. Quell’attimo che ti ha tradito, svelato, denudato. Ma essere nudi, in fondo è bello. E’ natura, è la primitiva ed ancestrale condizione umana, sin dalla nascita. Nudo, di fronte a te stesso e quindi di fronte agli altri. Coerente con ciò che sei, ingannevole con ciò che saresti dovuto essere. Ma chi ti ha chiesto di mostrarti vestito d’equilibrio? Chi ti ha deriso nella tua nudità? Chi ti ha condannato a tenerti in piedi? Guardare dall’alto non è poi così bello come dicono. E allora siediti, sdraiati, sentiti vivo.
La solitudine: la radiografia dello stato d’animo
Uno sguardo perso nel vuoto. L’istante appena prima del parto d’un pensiero. L’oceano di risposte che affollano la mente, in cerca di domande da porsi. Rapito da un fulmine di flusso di coscienza, strigliati da un rimprovero interiore, forte quanto quelli che beccavi da piccolo. Ma sei ancora piccolo. Piccolo di fronte alla coerenza, piccolo di fronte all’impotenza, piccolo di fronte a ciò che ti rende stabile quanto una stagione di questi tempi. La stagione della precarietà. La precarietà delle emozioni, la precarietà delle sensazioni, delle evoluzioni, dell’inconscio che prende il sopravvento. Imprimi a fuoco nella mente scene mai vissute, le ridipingi con i desideri, le avvolgi coi pensieri. Era nell’aria, doveva succedere di trovarti di fronte allo specchio che hai creato. Ti ci sei trovato e in fondo t’è piaciuto. T’è piaciuto perchè, in fondo, la solitudine è l’unica a darti sempre ragione.